7.5.14

Sessant’anni dallo scoppio della miniera di Ribolla: tutto cambia, niente cambia



I fatti della miniera di Ribolla, per quanti non li conoscessero, possono essere riassunti in poche righe: Ribolla è un piccolo villaggio dell’entroterra maremmano, sorto come un villaggio minerario della Montecatini, intorno alla miniera di lignite di proprietà di quest’ultima, (la Montecatini nel ‘66 si fonderà con Edison, dando vita alla Montedison, ma questa è una storia diversa). 
La miniera fu teatro, il 4 maggio 1954 di quella che può esser considerata la, più grave tragedia mineraria italiana del secondo dopoguerra: un'esplosione di grisù, il gas sempre presente nelle miniere di zolfo e di carbone, provocò la morte di quarantatré persone nella sezione "Camorra Sud"; l’onda d’urto percorse le varie gallerie provocando una nube di polvere che rese difficoltosa la respirazione ai minatori anche degli altri reparti e i primi soccorsi furono poco incisivi a causa della mancanza di maschere antigas. 
Come da tradizione di questo paese, il processo che ne seguì si concluse con l’assoluzione di tutti gli imputati, archiviando il disastro come mera fatalità e con le offerte in denaro della Montecatini alle famiglie, tra le quali molte non si costituirono parte civile, soldi con i quali l’azienda si pulì la coscienza e comprò la vita delle vittime. 
A seguito del disastro si decise la chiusura della miniera, la cui smobilitazione richiese ben cinque anni. 
Oggi le miniere del grossetano sono tutte chiuse, murate, i quattrocento chilometri di gallerie che le collegano sono ancora pieni di macchinari, pompe, travi, vagoni, materiali, icone di santa Barbara, tutto è rimasto sotto terra: monumento sotterrato di una delle tante utopie industriali, figlie del capitale, lasciato marcire assieme al ricordo dei morti e di chi ha respirato la polvere di carbone. 
Andando in giro per le strade di Ribolla tutto questo non è evidente, infastidisce, forse, la viabilità un po’ arruffata, ci si accorge della mancanza di una piazza o di un centro storico e, per quanti hanno l’occhio esercitato a vedere certe cose, rimane ingombrante qualche edificio che fa bella mostra della sua ridondante architettura fascista. 
Qualcuno in giardino ha una strana costruzione piramidale, la cui presenza e il cui significato è dato a pochi di sapere: è una discenderia, una delle tante aperture sulla miniera, dove un fragile cancello la chiude una bocca su un inferno profondo centinaia di metri che si srotola sotto il paese, ma per impattare visivamente nel momento di tanti anni fa, in cui l’intera Ribolla si è congelata, bisogna arrivare al Monumento al minatore[1], monumento che sorge su un terreno privato della tenuta Zonin, acquistato a seguito della dismissione frettolosa e totale, operata dalla Montecatini, di tutto ciò che riguardava la miniera. 
Se si chiede in giro, qualcuno sicuramente indicherà la strada sterrata che dal paese sale verso il pozzo 10 e il pozzo Camorra, tra ulivi, strane colline e costruzioni difficilmente interpretabili; dinanzi a quello che era l’ingresso dei pozzi, non vi è nulla, cartello o targa, che indichi cosa è accaduto, o cosa siano le rovine su quel terreno, ormai invaso da eucalipti, fichi selvatici e territorio di fagiani. 



Tanto le miniere ormai non esistono più 

Nell’era di Internet, del credit crunch e dei precari, le miniere e i minatori sembrano relitti del passato, ma le strategie dei padroni, si sviluppino in una miniera o in un call center, sono sempre le stesse. 
Amadeo Bordiga scriveva: “I procedimenti erano quelli di secoli fa e quelli che le descrizioni dell’Ottocento attribuiscono alle miniere inglesi e francesi di combustibili fossili.”[2]. All’epoca, nelle miniere maremmane si lavorava come in Germinale di Émile Zola: l’arretratezza era endemica e i guanti, mirabolante dispositivo di protezione individuale, arrivarono solo negli anni Sessanta. 
I minatori scendevano stipati nelle gabbie, una sorta di rudimentali ascensori che penetravano l’oscurità della miniera a una velocità di sei metri al secondo, praticamente in caduta libera. 
Nelle gallerie, centinaia di metri sotto la superficie, la temperatura era intorno ai 40 °C, l’umidità al 95% e si lavorava mezzi nudi con i piedi nell’acqua. 
I minatori estraevano il materiale facendo esplodere il fronte della galleria, spaccando il resto con il martello pneumatico, attrezzo che nel loro linguaggio chiamavano il bambino, per i suoi trentacinque chili di peso, caricando tutto su vagoni che, trainati dagli asini o spinti a mano, giungevano ai nastri trasportatori, da qui il materiale estratto saliva alla superficie e poi passava alla cernita, operazione, dove spesso lavoravano anche le donne, addette alla selezione del materiale. 
Così raccontava la sua esperienza di lavoro un’operaia addetta alla selezione: “Ventidue tonnellate di carbone in otto ore… due bimbe! Perché a 15 anni siamo du’ bimbe! Se si sbagliava, poi, ci facevano anche la multa! Se lo immagina! Con le gonnelline perché se si portava i 

[1] Il monumento è opera dello scultore Vittorio Basaglia 

[2] Bordiga, A. Nel dramma della terra parti di fianco, Il programma comunista, 14-28 maggio 1954. 

pantaloni s’era poco per bene a quei tempi! Sicché sempre con la gonnellina! Picchiava qui il carbone, fino alle gambe…”[1] 
Ovviamente i ritmi di lavoro erano massacranti; vi era un minimo obbligatorio da raggiungere: l’economia, così la chiamavano gli operai, al di sotto di questa si veniva prima richiamati e poi eventualmente licenziati, il resto veniva retribuito a cottimo, ma è chiaro che era possibile percepire l’extra solo con un superlavoro, al limite delle possibilità umane, cosa questa che fruttava all’azienda profitti enormi, dal momento che ogni vagone di cottimo veniva pagato un terzo del lavoro in economia. 
Nel ’51, per protestare contro questo sistema retributivo e chiedere condizioni salariali meno indecenti venne indetto uno sciopero al quale parteciparono i minatori di tutta la Maremma: le miniere furono occupate e rimasero inattive per cinque mesi; purtroppo i minatori non ottennero nulla, ma si dimostrarono una forza sociale potente e riuscirono a impensierire non poco la borghesia.

[1] Intervista a Orielda Tognoni, Ribolla, 26.01.2003 in Barbara Solari. Presenze femminili “Le amiche della miniera” di Ribolla (1951-1954). 

Padri Padroni 

La Montecatini, dopo la fruttuosa collaborazione con il regime fascista, negli anni Cinquanta scatenò un’offensiva senza precedenti contro i lavoratori, che rivendicavano condizioni di lavoro più umane. 
A Ribolla tutto era di proprietà della Montecatini, a iniziare dalle case dei minatori, i quali, in caso di licenziamento, perdevano reddito e alloggio; gli operai erano schedati singolarmente, di ognuno erano note idee politiche, partecipazione agli scioperi, frequentazioni e quelli che professavano la propria fede al PCI erano vessati in ogni modo, licenziamenti, richiami, multe, mancate promozioni, trasferimenti da una miniera all’altra, in sostanza, tutto quanto oggi chiamiamo mobbing, in quegli anni, era la comune politica aziendale.

“Ogni astuzia è messa in opera per impedire agli operai di ritrovarsi insieme. Le ditte che gestiscono i trasporti degli operai a mezzo pullman sono state severamente diffidate a rispettare la puntualità delle partenze.[…] Specie all’esterno, dove il controllo degli operai è più facile, si arriva al punto che se due si fermano un momento a parlare, interviene la guardia e vuol sapere di che cosa parlavano.”[1]. 
Ai figli dei comunisti non veniva concesso il trasporto in autobus per frequentare la quinta elementare a Grosseto, servizio che invece era offerto gratuitamente ai figli dei crumiri e degli impiegati. 
Di proprietà della Montecatini erano i anche luoghi di socializzazione, come il cinema, il dopo-lavoro e la ditta aveva sul suo libro paga persino il prete di fabbrica, personaggio che ebbe un ruolo fondamentale nello spingere le vedove a non costituirsi parte civile nel processo per la sciagura del 1954. Sembra che il prete percepisse anch’egli un premio di produzione ed è forse questo l’unico caso, nella storia di un’azienda, della compravendita di coscienze. 
Il prete aveva libero accesso alla miniera, così come potevano entrare i rappresentanti di CISL e UIL, mentre c’era il divieto per quelli della CGIL, della Montecatini era anche l’ambulatorio, la squadra di calcio, lo spaccio cittadino, dove i minatori spendevano il salario per mangiare e sua era anche l’acqua: “Ogni giorno la Montecatini manda in paese la botte, ma non ci toccano più 

[1] Bianciardi-Cassola 

di due brocche. Due brocche a famiglia per cucinare, pulire, lavarsi, bere.[…] Allora mi lavo con l’acqua del pozzo, ma è acqua cattiva, acqua e polvere, la solita polvere.”[1] 
La Montecatini aveva messo in essere una serie di divieti: erano proibite le riunioni nei piazzali, era proibita la diffusione di stampa in miniera o nelle aree adiacenti, venivano imposti tre giorni di sospensione, senza paga, a chi portava via un po’ di legna di scarto dai cantieri per scaldarsi, vi erano premi anti-sciopero e concessioni di case, gite e vantaggi di varia natura a chi si asteneva dalla lotta politica ed è ovvio che in questa ottica l’azienda rifiutò di fornire i locali per la casa del popolo, che i minatori, invece, costruirono poi con le proprie mani e a proprie spese. 
La celere era una presenza fissa nel panorama delle attività dell’azienda, Ribolla era, insomma, un feudo padronale in cui le libertà fondamentali erano sospese e il sistema di sfruttamento era totale; sorveglianti e guardie svolgevano regolarmente opera di intimidazione e spionaggio politico. 
La strategia della direzione era chiara: dividere i lavoratori, impedire il collegamento con gli impiegati, isolare chi parlava di sicurezza, spazzare via tutto ciò che si frapponeva tra l’azienda e il profitto che questa intendeva ricavare. 
Tuttavia sarebbe riduttivo connotare il sistema Montecatini alla sola meccanica di un supersfruttamento economico, la strategia era più vasta e sottile: incidere anche sulla componente sociale ebbe grande importanza per l’azienda, infatti la sua strategia non si limitava solo al conseguimento di enormi, ma realizzava anche una costante oppressione sociale e di classe, attraverso sistemi fascisti, ma offrendo la propria immagine come quella del buon padre di famiglia, che ama i propri figli operai. 

La coltivazione a rapina 

Dal 1948 al 1950 la Montecatini aumentò la produzione del 28% pur a fronte di una riduzione del 10% del personale, i dati testimoniano chiaramente lo sfruttamento inumano cui erano sottoposti i minatori e per ribadire il proprio esser padrone, nel 1951, dopo i cinque mesi di sciopero, fu inviato a Ribolla quello che si rivelò essere un durissimo strumento di repressione e smantellamento della miniera, l’ing. Padroni, non ingegnere minerario ma elettrotecnico, un duro venuto a mettere a posto gli operaie con l’ incarico di risparmiare fino alla smobilitazione. 
Sotto la sua direzione i metodi di estrazione tradizionali, furono sostituiti, nel ‘52, dal sistema a franamento del tetto: dopo aver sfruttato una galleria, questa veniva disarmata, togliendo le travi di sostegno e lasciando crollare il soffitto: era un metodo estremamente pericoloso perché, in questo modo, rimanevano intrappolate grosse sacche di grisù. 
Non soddisfatto di tutto questo, nello stesso anno, l’ingegnere, fece adottare, il sistema cosiddetto a fondo cieco; le gallerie venivano scavate direttamente nel banco di materiale, la via di accesso era anche l’unica via di fuga per il minatore, in netta antitesi con la più elementare cultura del gestire la dinamica di una miniera: un vero e proprio scempio per chi vi lavorava, oltre che un gravissimo pericolo, perché sicurezza ridotta a zero A più riprese, sindacati, singoli minatori e associazioni femminili denunciarono i pericoli di una siffatta gestione, senza alcun risultato. Gli operai sapevano che prima o poi sarebbe successo e si cominciava a temere la miniera. 

[1] La miniera a memoria. 

Lo scoppio 

Quella di Ribolla era notoriamente una miniera particolare, vi si sviluppavano spesso incendi difficili da domare, essenzialmente complice il sistema di aerazione difforme completamente dai minimi previsti per la sicurezza di tale lavoro: la mattina del 4 maggio uno dei focolai entrò in contatto con grisù e polvere di carbone e questo innescò due esplosioni. Al momento dello scoppio, era sottoterra un’intera gita, un turno di quarantasette persone: “I soccorsi sono lenti, la direzione della Montecatini sostiene che l’elenco degli operai del primo turno non è disponibile, è andato perduto insieme al sorvegliante Gino Ferioli, morto nello scoppio; le notizie sono poche, i primi cadaveri escono dalla miniera intorno alle cinque del pomeriggio.”. 
Si contarono quarantadue morti, l’ultimo, il quarantatreesimo, morì per intossicazione. La preparazione a eventi del genere era inesistente: i compagni si precipitarono in fondo ai pozzi, ma gli autorespiratori non erano sufficienti e solo a distanza di ore direzione fece fermare la produzione negli altri pozzi. 
“La sciagura di Ribolla non fu dovuta a una tragica fatalità, ma alla consapevole inadempienza di precise norme di polizia mineraria. […] Non è stata la fatalità, ripetiamo; la sciagura è successa perché non si teneva in sufficiente e doverosa considerazione la vita dei minatori.”(1) 
Ai funerali parteciparono cinquantamila persone; nessuno raccolse e portò le corone di fiori inviate dalla Montecatini: lo fecero due guardie. Finiti i funerali, tornò la celere. 

Il processo 

Le perizie sulla disgrazia di Ribolla furono essenzialmente tre: quella della CGIL, redatta subito dopo lo scoppio, quella avviata una commissione governativa e quella dell’azienda; la CGIL fu la prima a denunciare il sistema Montecatini come causa diretta della tragedia: la coltivazione a rapina, la violazione delle norme del regolamento minerario, il supersfruttamento al quale erano sottoposti gli operai e anche la perizia governativa mise in luce le inadempienze in essere nella miniera, tuttavia, questa lasciò aperto uno spiraglio alle responsabilità della mancata sicurezza: la precisa dinamica dello scoppio poteva essere solo ipotizzata. 
Su questa che era la mancanza della prova provata, la Montecatini costruì la propria linea difensiva: era stata una fatalità che nulla aveva a che vedere con la gestione della miniera. Dopo la tragedia, l’azienda riversò denaro e aiuti vari sulle famiglie dei morti che, schiacciate tra lutto e bisogno, accettarono in massa gli indennizzi, rinunciando, in cambio a costituirsi parte civile al processo che, nel frattempo, era stato spostato a Verona per legittima suspicione. 
Il fronte di lotta che fino a quel momento si era mosso compatto contro la Montecatini si sfaldò e in tutto questo, certosina ed efficace si mostrò l’opera del prete di fabbrica che, schierato da subito dalla parte dei padroni, spinse le vedove ad accettare i risarcimenti e addirittura avallò alcune voci che insinuavano che la tragedia fosse stata il frutto di un atto di sabotaggio degli stessi operai. 

[1] Bianciardi, Cassola: “I minatori della Maremma”, Ex Cogita, 2004. 

Il PCI e la CGIL erano consapevoli di quanto potesse essere pericolosa ed efficace la strategia della Montecatini, ma non riuscirono a fornire alle famiglie colpite il sostegno necessario per proseguire la lotta: l’epilogo fu terrificante e scontato. 
Nella sentenza di assoluzione con formula piena si legge: “Nulla è perfetto e la perfezione, meta sempre irraggiungibile dagli umani, non alberga certo nelle tenebrose viscere di nessuna miniera del mondo, mastodontico complesso spesso soggetto al disfrenarsi di forze occulte e a imprevedibili avvenimenti.”[1] 
Questa fu la giustizia amministrata dallo Stato, nei confronti delle vittime e delle loro famiglie: i quarantatre morti del 4 maggio 1954 sono stati fagocitati dalle viscere di un mostro che abita le oscure profondità della terra, disumano e imprevedibile. La colpa non è di nessuno. 
La memoria di quei minatori, si è nel frattempo sbiadita nelle nebbie del tempo, vengono ricordati in una delle liturgie che si celebrano quando ne ricorre l’anniversario, per il resto la voglia di normalità è stata tanto forte da far dimenticare che si vive, si mangia e si dorme sopra questo mostro famelico, si sono sbarrati tutti gli accessi a questo dedalo, il Minotauro è chiuso dentro. 
Dei mostri veri, dei responsabili in giacca e cravatta, non si ha paura: sono liberi di muoversi da un posto all’altro, da una disgrazia all’altra, da Marghera a Taranto, nelle migliaia di piccole fabbrichette e grandi stabilimenti che continuano a ingoiare vite umane per pura fatalità. Niente cambia: le miniere, i minatori e le sue vittime esistono ancora. 

[1] BCF, APDMR, Sentenza del Tribunale di Verona, arch. 491, p.50-51, riportato in Fiorani, Matteo. Il processo alla Montecatini. In “Ribolla. Una miniera, una comunità nel XX secolo. La storia e la tragedia.”

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