26.3.15

ATTENTATO IN TUNISIA - AL BARDO, GLI IMPERIALISMI, SI FREGANO LE MANI





Ammazzateli tutti, investiteli con le auto, sgozzateli sulle spiagge, affogateli in mare.”, questi e altri incoraggiamenti di tale tenore, arrivano dallo stesso commando di terroristi che a Tunisi ha fatto una strage di stranieri.
È l’incitamento rivolto ad altri jihadisti e a quelli che vengono definiti “lupi solitari” che è comparso sul web in un documento scritto forse da uno dei componenti del commando che è riuscito a fuggire, documento redatto come una qualsiasi persona farebbe con il suo diario e che racconta la morte di ventitré persone iniziando con le parole: “È una normale giornata di sole, c'è un bel clima, piacevole e temperato …”.

I fatti sono che la barbarie della quale queste bestie si rendono protagoniste, non solo non si ferma, ma fa continui salti di qualità.
Ventitré morti ammazzati ed è la prima volta, a partire dal 2010, epoca della “Rivoluzione dei Gelsomini” che determinò la cacciata di Zine El-Abidine Ben Alì e dette la stura alle “primavere” arabe, in un paese come la Tunisia, considerato “tranquillo” visto che era ancora tra gli itinerari turistici, almeno tra quelli provenienti dall’Europa, che la vita del paese viene sconvolta da un fatto di sangue così grave e così ampio, diretto, poi contro crocieristi europei, sbarcati per il tempo necessario a visitare il museo.

È ovvio che l’azione sia stata pensata per andare al di là dei morti: il turismo, per la Tunisia, costituisce il 7% del PIL e l’obiettivo vero è stato quello di creare terrore intorno a questa opzione del paese, in modo da affossarne ancora di più la già disastrata economia.
La strategia del terrore è quella che meglio si presta a destabilizzare la società e di conseguenza il suo establishment e alle mire jihadiste si aggiunge anche il fatto, intollerabile per molti versi, che la Tunisia è il più laico dei paesi del nord Africa.

Per il resto si recita un copione già visto: gli autori dell’attacco erano persone conosciute alla polizia e sotto attenzione da parte dei Servizi tunisini e in più l’esercito, non più di una trentina di giorni addietro, aveva catturato alcuni appartenenti al gruppo Okba Ibn Nafaa, (OIN) sospettato della paternità dell’azione al museo e che si richiama al califfato islamico e per concludere, al tutto si è aggiunto il fatto che il poliziotto che doveva essere in servizio di vigilanza dinnanzi al museo, non c’era e quindi gli attentatori hanno avuto buon gioco a entrare e iniziare la loro azione, successivamente alla quale c’è stata, come dire, una sorta di riconoscimento sul campo dell’OIN, in quanto la stessa ISIS si è attribuita la paternità dell’attentato accreditando questo gruppo come propria creatura operante in Tunisia.

Tra i catturati del commando c’era Khaled Hamadi Chaieb, conosciuto con il suo nome di battaglia: Lokmane Abou Sakhr che è uno dei leader del terrorismo in quella zona e personcina nota da tempo all’antiterrorismo.
Il resto è cronaca vissuta altre volte in maniera identica: il cordoglio, l’esecrazione, la condanna della barbarie, le minacce e l’indecisione del mondo occidentale, la palese incapacità a gestire una minaccia sempre più incombente e soprattutto nessuna ammissione di una qualsivoglia forma di responsabilità.

Sì, perché non occorre essere sottili analisti politici per capire che alla base di questa barbarie ci sia lo spettro della crisi economica; i dati economici della Tunisia sono drammatici: la disoccupazione supera il 20%, quella giovanile si attesta a oltre il 40%; secondo stime della Banca Mondiale il 50% dei giovani diplomati è senza lavoro e il dato, al femminile, sale al 65%.

Considerati i numeri e aggiungendo a questi la mancanza di un futuro credibile e la mancanza della prospettiva di poter tracciare un qualsivoglia progetto, diventa facile capire come i missionari del jihadismo riescano facilmente a conquistare questi giovani con le lusinghe di un’alternativa a questo stato di cose, il tutto con la benedizione di Allah, in nome di una giustizia che si scaglia contro il mondo occidentale corrotto e corruttore e quelle istituzioni arabe non ortodosse.
Grazie a queste seduzioni e soprattutto grazie anche ai capitali di Arabia Saudita, Qatar e degli immarcescibili Usa, che nasce l’ISIS, cui migliaia di giovani aderiscono e che dopo un po’ sfugge di mano a chi lo aveva inventato per rigenerarsi nella più feroce armata di assassini vista sin’ora.
Quella di quest’angolo della terra è la stessa disperazione di una qualsiasi delle periferie del mondo esasperata dalla crisi economica i cui danni non hanno ancora terminato di devastare la vita delle persone.

Va da sé che esclusa la possibilità a breve, di traghettarsi fuori dalla precarietà economica e sociale,  la voce dei predicatori del jihadismo, si risolva nella sola in grado di trainare e infine ingannare un’intera generazione, presentandosi come l’alternativa unica e indispensabile capace di scardinare quelle istituzioni arabe considerate troppo morbide e “democratiche” e combattere la corruzione del mondo occidentale.

Interessi imperialisti nutriti infine dal dolore che si incendia nelle banlieues parigine o nei quartieri di immigrati a Londra e le cui sempre più fragili condizioni di vita, diventano la costante e in peggio, di  proletari sempre più numerosi,  sottoproletari e la classe media in via di proletarizzazione.
La scelta della jihad, è scelta che somma alla metallica protervia di profitto occidentale, la fame espansionista, devastante dello Stato Islamico a vocazione assolutamente capitalista , tanto da esprimersi in ciò anche nello sfilacciamento economico e nel  parassitismo finanziario. E come le realtà sociali che contrasta, di fatto, ne è a busta paga, tessendone lo stesso filo rosso: droni e armi chimiche degli “infedeli”  verso civili inermi, attentati e terrore nella belluina offensiva dell’Isis.

E’ importante che le avanguardie, nonostante la drammaticità dello scenario politico e di fatto atomizzate, facciano penetrare l’idea che le guerre imperialiste, indipendentemente dalla “pezza d’appoggio” ideologica,  sono profondamente radicate nel liberismo e successivamente, si impegnino nel compito non facile ma essenziale di costruire le condizioni soggettive ad una coscienza di classe che abbia a cuore la  lotta al capitalismo, nelle sue cicliche e lancinanti crisi economiche, che trovano respiro, linfa e risposta nelle guerre di aggressione  - pur se nella dicitura a “difesa”- per la rottura o la riaffermazione dei meccanismi economici del capitale, durante i continui assetti e le continue ridefinizioni  delle borghesie.

Nella desolazione della  crescente pauperizzazione, ciò che accomuna vaste sacche di popolazione, sono i conflitti e la morte di cui questi ne portano il bagaglio e di giovani a cui è stata tolta la capacità e la speranza alla progettualità, incapaci, nel demagogico indottrinamento, di realizzare  che quel  criminale disegno politico, non è teso all’autodeterminazione di un popolo ma alla radicalizzazione di uno scontro dato da interessi specifici e dunque: la rendita petrolifera, il profitto e le leggi che questo sottendono

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