14.7.16

Da Abu Bakr Al-Baghdadi in compagnia del senatore John McCain, alle strategie criminali che insanguinano il Medioriente, l’Africa e l’Europa, l’ISIS si prefigura sempre di più come il cancro del moderno capitalismo, un fatale sottoprodotto della nostra illimitata dipendenza dall’oro nero, un sintomo parassitario dell’evoluzione delle profonde crisi cicliche dell’intero sistema economico. Una riflessione sulle ultime vicende.






Istanbul, Bangladesh e Bagdad, tre nomi macchiati di sangue, sangue ancora fresco di persone, vittime di interessi, talmente forti e potenti da poter innescare e tenere attive queste e altre barbarie, malgrado lo starnazzare, sempre postumo, dei governi coinvolti, l’affanno delle varie intelligence, che dopo i morti, dicono sempre di aver inviato informative a riguardo e malgrado il fatto che, a cavallo di questi due secoli, l’uomo stia scrivendo una delle pagine più crudeli e ignobili della sua storia. Ma procediamo con ordine: l’attacco all’aeroporto di Istanbul ha, sin qui, contato quarantadue vittime e più di duecento feriti ed è ovvio che si sia guardato allo jihadismo, per le modalità con cui si è svolta l’azione e per una serie di elementi che, se messi a fuoco anche in maniera veloce, portano tutti a considerare fondata questa ipotesi. Un elemento immediato di riflessione, non può non essere il fatto che il giorno precedente la strage il procuratore di Ankara aveva chiesto il rinvio a giudizio e la condanna a più di cento ergastoli per ventisette miliziani, (di cui dieci in carcere), accusati di aver pianificato le stragi di Suruc e di Ankara, nelle quali lo scorso 20 luglio e 10 ottobre scorso hanno perso la vita complessivamente più di un centinaio di persone. 

Premesso che stando ai numeri, c’è qualcuno che ha calcolato che su tutti i morti ammazzati dallo jihadismo musulmano, l’ottantacinque per cento è formato da musulmani, la cosa fa pensare che il vecchio, trito e ritrito, slogan della guerra agli infedeli, sia un motivo oramai non più tanto credibile e nel caso specifico della Turchia, uno scenario più vasto lo offrono alcune delle politiche messe in campo da Erdogan nel governo del paese del quale è a capo. Con buona certezza, l’azione all’aeroporto di Istanbul può essere interpretata come una sorta di vendetta nei riguardi del premier turco, che è riuscito a inimicarsi un po’ tutti, con la sua politica aggressiva e di vista corta e con lo sfacciato perseguire solo i suoi interessi politici personali, che necessariamente passano attraverso un suo progetto imperialistico che vorrebbe la Turchia arbitro dei destini di quella zona. Il primo passo è stato aver, di fatto, cessato di guardare con occhio benevolo lo jihadismo, sin qui aiutato con soldi, armamenti e, non da ultimo, in agibilità sul territorio turco, contribuendo, assieme ad altri, al fatto che oramai si ritrovi in difficoltà piuttosto serie e in ritirata su più fronti. 

Ma quello che più conta è una sorta di movimentismo politico cui si è abbandonato tentando di ricucire i rapporti con i vecchi alleati, rapporti che negli ultimi due anni erano in profonda crisi: dopo aver scritto a Putin una lettera di scuse per aver abbattuto uno dei suoi caccia Sukhoi è iniziato un intenso lavoro diplomatico, tutto mirato alla realizzazione del progetto del Turkish Stream, un gasdotto alternativo a quello russo di Gazprom, la cui costruzione non sarebbe esclusivamente un rapporto commerciale tra Russia e Turchia ma elemento funzionale sia alle rispettive politiche di potenza, sia ai paesi membri dell’Unione Europea, progetto che, dopo la crisi con Mosca, rischiava di rimanere sulla carta. Esemplificando il concetto, l’obiettivo di Erdogan è quello di potenziare il ruolo della Turchia come elemento centrale degli smistamenti di petrolio e gas tra Russia asiatica ed Europa. 

Turandosi il naso, Erdogan, su richiesta degli americani, ha acconsentito al fatto che le truppe curde transitassero sul territorio Turco, per combattere contro l’ISIS, questo in una più generale visione di cercare di riallacciare le fila di un rapporto con gli USA, oramai diventato difficile dopo la decisione americana di togliere l'embargo all'Iran, suo acerrimo nemico e nella stessa ottica va anche considerato il suo riavvicinamento a Israele tentando di rimettere in piedi la vecchia alleanza militare interrotta sei anni prima fa dopo la strage compiuta dalla marina israeliana contro la nave Mavi Marmara diretta a Gaza con un carico di aiuti, con l’uccisione di nove cittadini turchi. Quanto accaduto all’aeroporto di Istanbul, potrebbe, quindi essere interpretato come un disperato tentativo da parte dell’ISIS o di quelli che sono autorizzati a usare il suo marchio di fabbrica, di dimostrare a quanti lo hanno sin qui sostenuto e che man mano lo stanno mollando (fatta eccezione per qualche Emirato e per il solito Qatar) di poter essere ancora attivi, in grado di poter colpire come, quando e se vogliono. Ovviamente c’è anche da considerare che in un paese come la Turchia le cose potrebbero non essere così lineari come descritte, c’è, infatti, da tenere presente l’azione del PKK e dei “cani sciolti” del TAK, una sua scheggia di fatto impazzita, che di recente si è chiamata fuori da questo e che si è proposta sul terreno del terrorismo firmando, negli ultimi due anni, almeno tre attentati suicidi con decine di morti ad Ankara e Istanbul. In questi frangenti c’è da pensare quanto potrà resistere il governo Erdogan, dato che lo scenario rimane sempre lo stesso: il capitalismo che si muove solo ed esclusivamente per i propri interessi, cercando di affermare tramite i paesi di riferimento (USA e Russia) la sua egemonia in quell’angolo di mondo per il controllo di petrolio e quant’altro. Un altro mattatoio è diventato il Bangladesh, dove la situazione è ancora piuttosto in divenire; l’attacco nel ristorante di Dacca, la capitale di quel paese, portato a termine da un comando islamista, stavolta, però, formato non dai soliti rozzi tagliagole, ma da bravi ragazzi, di buona famiglia, ben educati e studiosi. 

Questo di Dacca, meriterebbe inoltre un’analisi a parte. Ed è l’ultimo aspetto mostrato dal terrorismo macellaio dell’Isis: la fascinazione verso i ceti borghesi. Le azioni omicidiarie sono state infatti inferte da un gruppo di ragazzi perbene, coccolati dalle rispettive famiglie e con curricula di costose scuole private, in quel futuro dalla collocazione privilegiata. Per morire e dare la morte come macellai, farsi immortalare davanti alla bandiera nera del Califfato, massacrare, senza neanche che li percorresse una tensione politica o sociale e di persone che semplicemente non hanno saputo recitare alcun versetto del Corano, indipendentemente dalla domanda del perché e come, i più , lì presenti e imprenditori tessili, fossero radicati su quel territorio che consente produzione e profitto a maggior sfruttamento forza lavoro domanda. O forse non è tutto. Atif Jalal Ahmad, ricercatore di origine bengalese del Woodrow Wilson Center, esperto di politica internazionale all’Università Rutgers, nel suo saggio: ISIS infetterà il Bangladesh, afferma che oramai sono chiari i segnali dell’interesse ISIS a penetrare anche in quella regione, che vorrebbe come sua provincia, sostenendo: “La rivendicazione e le immagini orribili della strage confermano che l’azione è stata sicuramente inspirata dal brand ISIS. C’è però un dettaglio che fa riflettere sull’effettiva paternità dell’attentato. 

Durante i negoziati con la polizia, il commando ha fatto due richieste: una via di fuga e la liberazione del leader di Jamaat ul-Mujahideen Bangladesh.”, gruppo che già dal 1998 aveva tentato di dar vita a uno stato islamico. C’è da aggiungere che assieme a questo sono attivi in zona, altri due: l’Ansar Ullah Bangla Team, per un certo periodo, scomparso, perché privo di fondi e ricomparso dal 2013 con l’intento di radicalizzare le giovani generazioni locali e il gruppo Jamaat-e-Islami Bangladesh, che raccoglie la maggioranza sunnita del paese e che è il più potente tra i tre dal momento che dispone di consistenti finanziamenti provenienti anche da Al-Qaeda e dal quale un gruppo di giovani si sarebbe staccato per unirsi all’ISIS. In questo scenario rimane aperta la questione della rivendicazione, reclamata all’inizio da Ansar al Islam, più vicina ad Al Qaeda che non all’ISIS e poi riportata anche dall’agenzia A’Maq del califfato, il che è indicativo del fatto di quanto, nella regione, la situazione sia difficilmente valutabile secondo i parametri delle classiche alleanze o affiliazioni. L’ISIS si è ultimamente impegnata molto nel diffondere messaggi mirati a catturare l’attenzione sulla regione e a promuovere la radicalizzazione dei locali e molto recentemente (si parla di giorni) è comparso un volantino con l’elenco delle aree controllate dal califfato e dove il Bangladesh è indicato come uno dei luoghi dove dispone di unità sotto copertura affiliate alla causa. A corroborare la notizia di tutta l’attenzione che l’ISIS ha per quel territorio, la rivista Dabiq, pubblicazione ufficiale del Califfato, nella edizione di aprile ospita un’ampia sezione dedicata alla situazione del Bangladesh, dove viene espresso il cruccio che a causa della realtà sfaccettata delle confessioni religiose della regione, specie di quella musulmana, diviene piuttosto difficoltosa la penetrazione della propaganda di reclutamento ma è chiaramente indicato il fatto che il Bangladesh rimane il Paese chiave per connettersi al Khorasan attraverso la penetrazione in Myanmar e India. Ultima, in ordine di tempo, nella lista degli orrori è Baghdad e qui l’analisi è piuttosto semplice: Falluja e l’etnia sciita sono le parole chiave di questo massacro: nella notte del 3 luglio un kamikaze ha fatto saltare in aria a Baghdad, una vettura imbottita di esplosivo, devastando il distretto sciita di Karrada e uccidendo oltre duecento persone che affollavano le strade per festeggiare la vigilia della fine del Ramadan, il mese sacro di preghiere e di digiuno che fa parte del credo musulmano. Senza girarci molto intorno questa azione è sicuramente inquadrabile in quello che è oramai un conflitto storico tra sciiti e sunniti, per il quale, ISIS a parte, non si intravede la benché minima possibilità, sia pure a lungo termine, di arrivare a una composizione e può esser vista come la risposta alla riconquista di Falluja, che era roccaforte dei sunniti e dell’ISIS. 

Il Califfato, negli ultimi mesi ha perso il controllo di diversi territori, tra cui la città di Ramadi e la provincia di Anbar e quindi controlla solo il 14% del territorio iracheno, ma questa situazione, ormai resa precaria, non ha scoraggiato la sua capacità di colpire e seminare la morte. Questi i fatti, esemplificati nella loro narrazione, ma merita una riflessione quanto siano pensate tutte queste strategie di morte; inutile nascondersi dietro un dito: troppa logistica, troppi soldi, troppo veloce l’organizzazione per rispondere ai successi di chi combatte l’ISIS. E non è cattiva coscienza realizzare che vi sia una strategia che, a difesa degli enormi interessi economici in ballo in quell’area, sia tranquillamente in grado di innescare guerre, stragi, esodi di massa, nell’assoluto disprezzo di ogni vita umana, così non è di cattiva coscienza realizzare che questa sia l’estrema modalità dello sfruttamento secolare di quelle regioni.

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