5.12.14

LA LOTTA DI TUTTI I LAVORATORI NON SI FERMA AL 14 NOVEMBRE MA DA QUESTA DATA SI RIPARTE FORTI E COMPATTI NELLE RIVENDICAZIONI


Dopo l’apparente stallo della società italiana, che in un primo momento era apparso come risposta all’attacco delle condizioni di vita alla classe dei lavoratori , qualcosa sembra muoversi. Ma è davvero voce flebile, tenue eco. Infatti, nonostante gli scioperi e le manifestazioni degli scorsi due mesi hanno dato cenni di un pur, se timido tentativo di risveglio, ancora mostrano un sostanziale torpore rispetto all’aggressione che non solo a livello europeo ma mondiale, le varie borghesie mettono in atto per rinsaldare tutto quanto torni loro utile, affinché la profonda crisi del capitalismo, ormai giunta alla fine del suo settimo anno, non ne decreti la fine o quanto meno un ripiegamento.

Degno di nota e di menzione è stato lo sciopero sociale del 14 novembre, che ha visto la mobilitazione di diverse città e realtà, su un’urgenza e istanze create dal basso, presenti strumenti, slogan e appuntamenti in perfetta sincronizzazione e coordinamento. Urge ora dunque, fare qualche riflessione, affinché il ragionamento non si ponga assolutamente in modo vago, bensì che si faccia contributo ad una discussione che non può consentirsi astrazioni ma si renda cruciale per gli anni di lotte a seguire.

I consensi alla Lega di Salvini, fragili di apparenza (con tanto di proclama sull’abbandono della secessione - tra l’altro da sempre millantata e mai veramente voluta – fino all’assimilazione come proprio, di un modello alla Le Pen attraverso l’accorpamento politico e la vicinanza a gruppi fascisti e nazionalisti) e l’apparente cambio di atteggiamento dei sindacati confederali nei riguardi del Governo, che però è proteso nell’approvazione del Jobs Act, si possono tradurre e comprendere, con la delicata fase di transizione che la nostra società sta guadando: l’economia italiana sente di dover ristrutturare il capitalismo nazionale e per questo Renzi continua, perseverando.
Infine, se questa situazione la leghiamo alla sostanziale esautorazione dei partiti di massa, otteniamo la vivacità e il proselitismo in salsa corporativa, della Lega quanto della CGIL.
Renzi ha scelto di infilarsi nell’imbuto di una particolarità tutta italiana, diventando alfiere in questo Paese, di un capitalismo che nonostante si dimostri strategico al consolidarsi di interessi locali e internazionali, nel sistema mondo è realmente “straccione”, presentando una concorrenza prossima allo zero rispetto alla concorrenza globale.
E’ fuori discussione che non sia l’euro, argomento tanto caro agli innamorati della sovranità della nazione o la tanto sovracitata austerity (l’utile ricetta che giustifica il crollo dei profitti padronali, mettendo a punto e utilizzando il meccanismo del determinare l’improduttivo e quindi di eliminarlo, ovviamente tagliando posti di lavoro, diritti e quant’altro), ma si tratta, in buona sostanza, delle scarse e inadeguate risposte dell’Italia e dell’Unione Europea, rispetto all’impoverimento e alle tragiche amputazioni applicate al mercato del lavoro.
L’UE aspira - stentando nel raggiungere tale obiettivo - e nonostante alcuni tentativi di corsa in avanti, a diventare un polo imperialista unitario e l’Italia, invece, sconta una struttura economica il cui 90% è formato da imprese al di sotto delle dieci unità occupate e quindi poco produttive. Queste imprese, quasi sempre di tipo familiare (e dove - in particolare nel Nord ‘performante’ - in termini di consenso elettorale la Lega Nord e non solo, attinge) offrono lavoro neanche al 50% dei lavoratori. Il resto delle imprese, nel 10%, rappresentano la presenza dell’altra metà della forza lavoro e infatti, sono quelle medie e grandi: una per tutte, la FIAT, la cui rappresentazione sindacale è sempre stata radicata. Tali dati, danno la misura della contraddizione in cui si inserisce la querula retorica renziana sull’articolo 18, nel frattempo che si ingrossa la mole dei licenziamenti e l’approvazione del Jobs Act. Alla luce di tutto questo, se non si vuole rimanere abbagliati dalle esercitazioni puramente demagogiche delle varie burocrazie sindacali, partitiche e reazionarie la base da tenere in considerazione è questa condizione. La dismissione di forme di partecipazione e di cui un partito come il PD, registra emorragiche perdite, in una crisi che difficilmente potrà superare ricomponendone il disagio e non abdicando al ruolo , neanche formale dei nuovi ricchi (con l’organizzazione di cene da mille euro e poco domandandosi della ragione dell’astensione), quello che è realmente importante è dare un contributo al defatigante punto di domande del“… e quindi, cosa facciamo?” che data la situazione e la connivenza del sindacato tradizionale alle scelte governative di questi anni, mette in luce le energie e le potenzialità espresse in maniera globale e dalla puntuale vicinanza della protesta.

Il 14 novembre nonostante limiti e fratture, ha rappresentato un momento proficuo in riflessioni e interventi d’azione politica.
Le mobilitazioni, vivendole da dentro e in piazza, nella lacerante consapevolezza dei licenziamenti sempre più numerosi, in contratti precari o lavoro gratuito per la quasi totalità dei nuovi posti e nella generale stagnazione al ribasso dei salari, deve farci interrogare se ancora sia possibile e realmente una difesa del diritto al lavoro e farci realizzare in definitiva, che è solo affrontando di volta in volta, nel ginepraio delle vertenze aziendali, gli attacchi contro chi lavora che è possibile unificare le lotte su scala almeno nazionale.
Le parole chiave sono dunque necessariamente ancora oggi ma soprattutto oggi: la difesa del salario – questione dolorosa in particolar modo per i lavoratori più giovani e precari, che anche già prima di iniziare a lavorare, sono ben consapevoli che dovranno cambiare occupazione; solidarietà reale, tangibile, ai lavoratori, indipendentemente dall’azienda di riferimento e dunque il ricompattamento, accanto ai disoccupati e alle innumerevoli persone in cassa integrazione.

Questa nuove premesse, sembrano tracciare una linea comune con quanto arriva dall’America con i Fastfood Workers (loro è il primo sciopero globale a Maggio), o con quelli di Walmart, o come in Cina, in Germania, Belgio, Francia.

È possibile creare un sottile ma robusto filo rosso che sottenda richieste e contestazioni fin dai tempi di Genova 2001 e in qualche modo a quella rabbia si richiami? Pensare dunque e agire e non solo a livello locale, bensì chiudere la curva e ripartire?

Io credo di sì ma anche che tutto ciò sarà possibile, sempre che le condizioni lo consentano, solo se si ottiene un’adesione di massa e unificando le lotte in modo permanente e senza sbavature e non consentendo pertanto ad un Salvini e a Casapound, malgrado siano una minoranza, di riorganizzarsi.

Coloro realmente interessati a mettere in discussione lo stato di cose presenti, devono andare oltre il passo dei padroni, dato che l’insofferenza cresce e le risposte facili e di certo non risolutive vengono già utilizzate e sono fortemente strumentali. Il tempo che si perde, oltre a quello che viene ogni giorno rubato, nei riguardi di quanto accade, è un conto salato da pagare e allora, con forza, bisogna provare a non scontarlo tutti in dazio, ciò non significa piatire la carità pelosa della borghesia (anche in virtù del fatto che di lavoro, ve ne sarà sempre meno). Il lavoro non è un feticismo del secolo scorso e per questo è fondamentale organizzarsi.
La classe lavoratrice in tutto il mondo, conta più numeri in assoluto, dunque è importante agire ed energicamnte perché questa abbia più tempo e legittime e decenti condizioni e prospettive di vita, disponga di migliori contratti e un diverso modo di relazionarsi e per tali ed essenziali ragioni, abbiamo l’obbligo di non fermarci e continuare a combattere.

Resistenza Rossa

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