11.12.14

PIAZZA FONTANA, STRATEGIA DELLA TENSIONE ED EVERSIONE FASCISTA





Andando per ordine, possiamo dire che se il 1968 fu l'anno degli studenti, quello successivo, fu di totale appartenenza alle "tute blu". A raggiera: da Milano a Torino a Genova, le lotte si spostarono dall’università ai cancelli della Fiat, dell'Alfa Romeo, della Magneti Marelli, della Sit-Siemens, sembrò palese che le istanze rivoluzionarie che per tutto un anno, avevano animato le proteste degli studenti, ora fossero mature perché giungessero nelle maggiori fabbriche del Nord.
Tale successivo sviluppo, avvenne tra il Settembre ed il Dicembre del '69, facendo deflagrare la questione operaia con una virulenza che la borghesia nel padronato ma neanche i sindacati, immaginavano così evidente.
Del resto, le premesse vi erano tutte, sullo sfondo, il rinnovo contemporaneo di 32 contratti collettivi di lavoro, dunque cinque milioni di lavoratori dell'industria, dell'agricoltura e di altri settori che avevano tutte le intenzioni di non rendere afone le proprie rivendicazioni.
Del resto, malessere e disagi pulsavano sotto pelle da tempo, diritti, tutele che andavano difficilmente al pari con uno sviluppo che era stato compulsivo. Nel nostro Paese, si potevano infatti ‘vantare’ i salari tra i più micragnosi d'Europa, in condizioni di lavoro assolutamente precarie per molti operai, con scarse quando non inesistenti norme sanitarie. Tanto da far  dire  al segretario dell’epoca della CISL, Pierre Carniti che in Italia, si registrava : “ un morto ogni ora, un invalido ogni venti minuti, un infortunio ogni 4 secondi”.
Quell’autunno che si sarebbe preannunciato, come del resto fu, caldo davvero, non si configurò semplicemente come la messa in scena di un conflitto industriale che segue una scadenza contrattuale, bensì l’espressione di un grande movimento collettivo che andò anche oltre la legittima esigenza di gruppi di lavoratori interessati al rinnovo dei contratti – e che aprirono questioni mai risolte e ben più vaste di quelle che il sindacato espresse e rappresentò - .
Inizialmente, tale movimento fu organizzato e gestito o quanto meno appoggiato dagli "operai massa", in pratica operai non qualificati o scarsamente preparati e destinati alla catena di montaggio, figli di quel Sud, tanto povero e pertanto poco generoso verso i propri figli. Avulsi ed estranei alle tradizioni sindacali, ghettizzati e disprezzati nel proprio paese e nelle città in cui si trasferivano, contemplavano una forma di protesta spesso anche violenta.
Tanto che si presentò un meccanismo tutto inedito: la fabbrica, divenne luogo di eccellenza, emersero nuove forme di contrasto, di dialettica e metodi di lotta sindacale. Propulsive e forti, si mossero dal basso e con energia sconosciuta fino ad allora
Si ebbero così i C.U.B. Comitati Unitari di Base, i Gruppi di studio, che non di rado sinergicamente, affiancavano gli operai agli studenti, questo permise ai lavoratori finalmente organizzati di contestare e con ragione e da sinistra, le linee di direzione delle organizzazioni sindacali.
Al potere taylorista e verticale della fabbrica, si fece sentire, contrastandolo, un altro largo e di consenso di base, deciso e capace di generare tensioni, dare vita a conflitti, in forme e modalità mai contemplate prima di allora.
Compagni extraparlamentari, si posero inoltre frontali alle posizioni (oramai semplicemente figure vertenziali) di CGIL, CISL e UIL, determinando, anche grazie a quel loro apporto, un passaggio e una vera e propria trasformazione culturale che scosse profondamente le consapevolezze di tutti: operai prima e tecnici poi.
Le commissioni sindacali, che nelle proprie sezioni avevano portato avanti il compito di difesa dei lavoratori fin dagli anni ’50, di fatto, era piuttosto evidente fossero diventati obsoleti monoliti di rappresentanza, scavalcate dalle più agili riunioni di reparto, dalle assemblee, non sempre organizzate e che spesso incendiavano gli animi (questo è l’elemento in cui si ravvisa l’influenza del movimento studentesco).
(Mario Moretti, ad esempio, uno dei capi storici delle BR dice di quel periodo: “...la partecipazione era massiccia, i modi totalmente nuovi: non esiste un relatore unico, il microfono lo prendevano in tanti [...] le riunioni si trasformavano in un potente strumento di autodeterminazione [...] ricordo che noi della Sit-Siemens e i compagni dell'Alfa indicemmo un'assemblea così grossa che per farci entrare tutti occupammo il palazzetto dello sport che c'è tra le due fabbriche [...] venne fuori un'assemblea fantastica, discutemmo su tutto: normative egualitarie, riduzione degli orari, mobilità interna, salari svincolati dalla produttività, e poi le forme di lotta...”).
Ma forte e radicata era l’aristocrazia sindacale e la crisi istituzionale artatamente tenuta fino ad allora a “bassa intensità”, diede il “la” alle dirigenze sindacali di sottolineare e far presente gli elementi di unità e lotta piuttosto – anche e soprattutto a proprio vantaggio interno - sulle divisioni; le scadenze elettorali non imminenti, si focalizzavano con attenzione sulle difficoltà quotidiane e sulla forza e la crescita del movimento operaio.
Insomma le burocrazie confederali, ebbero la possibilità di far riferimento su una presenza politica di impatto e forte, tanto da far dire ad alcuni osservatori che ciò che stava accadendo era una vera e propria "supplenza sindacale" al sistema dei partiti.
Conquiste meritevoli comunque ve ne furono: è infatti del 9 Dicembre '69 , la firma con INTERSIND, che raggruppava le imprese a partecipazione statale, Dodici giorni dopo, il 21 e dopo ben 4 mesi di lotta, fu la volta della CONFINDUSTRIA. Molte delle richieste operaie furono accolte: aumenti di paga uguali per tutti e riduzione dell'orario di lavoro a 40 ore settimanali. La bella vittoria dei metalmeccanici, fu inoltre la possibilità di tenere assemblee in fabbrica.
E’ di quell’anno anche, il risultato legislativo dello "Statuto dei lavoratori", concluso cinque mesi più tardi.
Esso conteneva in sé una serie di paragrafi e articoli che facevano riferimento all’inalienabile  dignità e sui diritti dei lavoratori che riflettevano di certo un cambiamento di sensibilità ma anche un mutamento dei rapporti di forza.
Ne ricordiamo qualcuno, esercizio di memoria utile, data l’attuale macelleria sociale: il divieto delle indagini di opinione, la forte limitazione ai trasferimenti, quando le situazioni implicavano casi di necessità comprovata, regolari accertamenti sanitari e regolamentazione delle sanzioni disciplinari.
Tali norme, non fanno riferimento in modo specifico all'attività sindacale ma coinvolge gli interi rapporti di forza lavoro. E pur vero però che l’autonomia della classe operaia era stata utilizzata e coptata dal controllo occhiuto e concertativo all’interno delle fabbriche di burocrati sindacali spesso parassiti e comodi nella concertazione più utile ai padroni che ai lavoratori, braccio secolare del Capitale dentro la classe, tanto che le risposte non mancarono in movimenti più operaisti come Potere Operaio e il Collettivo Politico Metropolitano – nella “messa a punto organizzativa” del proletariato e soprattutto dal contributo offerto dall'autonomia operaia.
Quell’autunno caldo ebbe un epilogo tragico, sia per ciò che rappresentò, sia per le conseguenze indotte. Milano e l’intero paese, attonito, si ritrovarono impotenti spettatori della Strage di Piazza Fontana.
Le conseguenze dirette, ossia i fatti, si attengono alla cronaca raggelante: venerdì 12 Dicembre 1969 alle 16.37 nel salone centrale della Banca Nazionale dell'agricoltura in Piazza Fontana a Milano esplode una bomba che causa 16 morti e 87 feriti. Ma intanto vi erano state le bombe all’Altare della Patria e nel sottopassaggio della Banca Nazionale del Lavoro a Roma, con alcuni feriti.
Questa strage ha visto celebrare ben dieci processi, depistaggi, fughe di imputati all’estero, latitanze lunghissime e decennali, fughe all’estero di imputati, condanne, assoluzioni, con quella definitiva di Delfo Zorzi, Giancarlo Rognoni e Carlo Maria Maggi. Resta impunita l’area nazifascista che aveva organizzato la strage e anche di quella parte degli apparati dello Stato con loro collusa, per facilitare rendere possibile con la paura e la strategia della tensione, l’insediamento di un governo autoritario in Italia. E’ singolare di questa vicenda realizzare che tutte le sentenze su Piazza Fontana anche quelle assolutorie, arrivano alla conclusione che fu una formazione di estrema destra, Ordine Nuovo, ad organizzare gli attentati del 12 dicembre.
E anche nei processi che vedono l’assoluzione per i singoli imputati, il movente chiaro è che le bombe dovessero essere funzionali allo stato d’emergenza e che questo andasse sollecitato dall’allora Presidente del Consiglio, il democristiano Mariano Rumor, affinché si facilitasse l’insediamento di un governo autoritario. La stessa Commissione Parlamentare Stragi, già da allora, aveva compreso che tali azioni, in concomitanza con la strage, incubavano ipotesi golpiste per frenare il forte rinnovamento all’interno della dialettica sindacale e la crescita delle sinistre.
L’on. Rumor, evitò tra l’altro di annunciare lo stato di emergenza. Il colpo di stato, si diede appuntamento all’anno dopo e i referenti politici e militari, preoccupati della reazioni della società civile e favorevoli ad una svolta di estrema destra dello Stato, scaricarono all’ultimo momento i nazifascisti che intanto continuarono a compiere attentati e a dedicarsi all’eversione, i quali tentarono anche di assassinare Mariano Rumor, con la bomba davanti alla Questura di Milano (4 morti e 45 feriti), del 17 maggio 1973, reclutando il terrorista Gianfranco Bertoli.


Va da sé che in questa vicenda i depistaggi sono stati tanti e parte del mondo politico e dei servizi segreti. E nella rete vi sono finite figure che se pur di un certo rilievo in certi ambienti neri del tempo, restano comunque pesci piccoli come: Carlo Digilio, l’esperto in armi e in esplosivi del gruppo veneto di Ordine Nuovo che ha confessato di aver fornito l’esplosivo per la strage ed il quale ha anche sostenuto di essere stato collegato ai servizi americani (nelle sue dichiarazioni, ammette le attività eversive e la disponibilità di esplosivo del gruppo ordinovista di Venezia,di cui faceva parte Delfo Zorzi, assolto in definitiva per la strage, in quanto la Corte non ha ritenuto sufficienti i riscontri di colpevolezza raggiunti e neanche sono state sufficienti le rivelazioni di Martino Siciliano che era dentro la partecipazione degli attentati preparatori del 12 dicembre insieme a quel gruppo, con il preciso scopo di alimentare il disordine e far ricadere le accuse su elementi di sinistra). E magra, davvero magra consolazione è la conferma delle responsabilità degli imputati storici di Piazza Fontana, pure loro di Ordine Nuovo come i padovani Franco Freda e Giovanni Ventura, dato che condannati in primo grado nel processo di Catanzaro all’ergastolo, saranno assolti per insufficienza di prove nei gradi successivi, risultando non più processabili (fino ad oggi infatti, le sentenze definitive di assoluzione non sono più soggette a revisione).


Questi ed altri elementi venuti negli anni alla luce, hanno dimostrato ampiamente che la campagna di terrore non fu l’azione di un manipolo di fanatici ma che nella capitale, buona parte degli apparati istituzionali era a conoscenza della preparazione degli attentati e cercò (Taviani in punto di morte racconta e se ne rammarica, soliloquio oramai inutile) solo in extrema ratio,  non di evitare la strage ma di ridurne gli effetti. E del resto, dopo l’evento tragico, si adoperarono alacremente perché calasse una cortina fumogena sulle responsabilità a livello più alto.

In compenso, tre giorni dopo la strage, l’anarchico Pinelli, si defenestra da ‘solo’ dal quarto piano della Questura di Milano, intanto che un altro anarchico, Pietro Valpreda, viene incarcerato e indicato come mostro e autore.
Un merito e va dato menzionandolo, ad un gruppo di giovani che in soli mesi, riuscendo nello scambio di informazioni, furono capaci di organizzare una controinchiesta collettiva, raccolta in un famoso libro “ La strage di Stato”. Che ebbe il merito d scardinare velocemente la pista anarchica architettata e di proposito dagli infiltrati di Ordine nuovo, di Avanguardia nazionale e dei servizi segreti, il cui scopo era di depistare le indagini e mettere sotto accusa di fronte all’opinione pubblica gli anarchici e dunque il movimento studentesco, le forze di sinistra impegnate nelle lotte sindacali di quel periodo, preparando così il clima per la svolta autoritaria.
La strage di Piazza Fontana è come il segreto di Pulcinella e di certo non è un mistero senza mandanti, ha precise responsabilità soprattutto politiche. La strage, è bene ricordarlo, fu opera della destra eversiva, “anello finale di una serie di cerchi concentrici uniti” (1995: Commissione Parlamentare Stragi, Corrado Guerzoni, stretto collaboratore di Aldo Moro)  il cui progetto era quello di diventare i beneficiari e fruitori dei risultati che avrebbero portato con sé, simili, dolorosissimi eventi.
Quei i cerchi più esterni, espressione delle Istituzioni di allora, si posero come difesa e come struttura nella protezione dell’anello finale, cioè degli esecutori della strage.
Le bombe alla Banca dall'agricoltura e la morte di Pinelli, rappresentarono per molti la fine dell'innocenza, nessuno prima di allora, immaginava che il  nemico potesse ricorrere a tale forma di aggressione. Necessariamente in seno al regime democratico, si alzava il livello dello scontro, la violenza non poteva più essere rappresentata dalla piazza e si prese in esame, la necessità di passare alla clandestinità, dunque alla lotta armata.
Ma qui si apre un’ altra e ben più aspra questione.

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