16.1.15

Il PIANO DI ATTACCO DELLA SPECULAZIONE EUROPEA

La BCE mette a punto l’ennesima strategia convinta che questa dovrebbe avviare a un’espansione della politica monetaria e quindi, secondo la sua ipotesi, arginare le falle della crisi in atto, partorendo la genialata di un tecnicismo che ha il nome tutto anglosassone e già collaudato negli USA, di quantitative easing, (letteralmente la traduzione è: “alleggerimento quantitativo”).
L’idea è quella di acquistare titoli privati, conosciuti sul mercato come gli ABS (asset-backed-securities), una sorta di pacchetti di debiti e mutui cartolarizzati, cha altro non sono che beni o attività ceduti a terzi dove il recupero del loro valore dovrebbe garantire il rientro del capitale e il guadagno delle cedole di interessi indicate nell'obbligazione, ma se tale recupero non è possibile, per chi ha comprato titoli cartolarizzati, l’alternativa è la perdita sia del capitale che degli interessi maturati; in pratica titoli analoghi a quelli che hanno innescato la crisi finanziaria del 2008.
A corroborare questa strategia si ipotizza un’ulteriore mossa: a seguire ci sarebbe anche l’acquisto di Titoli di Stato, per supportare i quali, la contropartita sarà un’altra stagione di austerità e riforme ovviamente incentrate quasi esclusivamente su tagli alla spesa sociale.
Il concetto dei pensatori della BCE è che un siffatto meccanismo possa essere in grado di dare avvio a un’espansione della politica monetaria, ma già un diverso gruppo di pensatori dà per scontati esiti piuttosto limitati, incentivando, invece, l’approccio a una politica fiscaleespansiva, in grado di stimolare investimenti infrastrutturali, che dovrebbero essere, però, esclusi dai calcoli di bilancio ma contro questa ipotesi, un terzo gruppo di pensatori preconizza che il meccanismo comunque alimenterebbe, di fatto, e in maniera pericolosa, la crescita del deficit.
Altri prestigiatori dell’economia, firme storiche del Financial Times e dell’Economist, vagheggiano, invece, soluzioni formali che possano almeno nascondere gli aumenti del deficit senza far apparire quelli del debito pubblico.
In effetti, c’è da dire che per una varietà di piccolo e medio cabotaggio del capitale è oramai diventata un incubo l’equazione crollo della domanda interna, surplus di partite correnti e di conseguenza aumento della disoccupazione e nemmeno l’extrema ratio di una svalutazione competitiva garantirebbe una esemplificazione dei meccanismi, anzi il rischio che accada il contrario è praticamente scontato.
Riflettendo quindi su quanto sin qui detto, la soluzione potrebbe essere il ritorno a una “giustapolitica monetaria” ma qui bisognerebbe fare i conti, ancora una volta, con i fantasmi di sempre: gli speculatori dei mercati finanziari e le loro collaudate manovre; questi hanno bisogno di bassi tassi di interesse, accampando la necessità all’attuale contesto di ridotta produzione industriale, di basso volume del commercio mondiale e quindi di crescita debole, il tutto corroborato da un costo elevato delle materie prime e da una situazione occupazionale oramai nella catastrofe, quadro che, a memoria d’uomo, nessun meccanismo di politica monetaria e tassi di interesse ha mai modificato e potrebbe modificare.
È scontato che in maniera occulta vi sia una intensa attività, pratica consolidata da tempo, su tutti i mercati mondiali, per accreditare la convinzione che il capitale denaro sia in grado di auto valorizzarsi, ma quest’ansia di dover supportare con le parole, fatti che non ci sono, è la prova provata che il capitalismo tenta in maniera disperata di giocare le sue ultime carte pur di non affondare.
Ovviamente gli strumenti che servono ai Palazzi del Denaro per rimanere a galla, sono a carico dei vari stati (e quindi dei cittadini contribuenti), che continuano ad alimentare flussi di liquidità monetaria che altri luminari della finanza ritengono si riversi nell’economia reale, mentre il tutto rimane, poi, marcescente nella palude dei circuiti finanziari o girando a vuoto nelle spirali dei presunti “valori derivanti dagli attivi finanziari”.
Questo che dovrebbe essere un coordinamento marcato della BCE viene presentato come meccanismo innovatore di gestione e sorveglianza della crisi, mentre, in effetti, altro non è che l’ennesimo modo per tentare di convincere le banche a finanziare un’economia in sofferenza.
Qui, però, c’è un’altra considerazione da fare, anche questa piuttosto amara: le imprese che ricevono finanziamenti non li utilizzano per innovazione, ammodernamento ed espansione e quindi per creare nuovo lavoro, la maggior parte li utilizza per sopravvivere e pagare debiti accumulati.
Occorre, inoltre, per completare l’orrido di questo quadro, fare un piccolo ragionamento, oltre che sul livello del debito pubblico, anche su quello raggiunto nella UE dai debiti del settore privato (famiglie e imprese): è aumentato ovunque, essenzialmente a causa del suo rapporto col PIL in calo e non in crescita come il capitale esigerebbe; basti dire che nel periodo dal 2000 al 2013 in Italia si è passati dal 100% intorno al 150% e situazioni analoghe si ritrovano in Francia, Lussemburgo, Belgio e Olanda, mentre la Germania è la sola ad aver registrato una diminuzione.
Finalmente inizia a comparire qualche timida ammissione sul fatto che le politiche monetarie, di per sé, non sono sufficienti a scuotere un’economia oramai in coma avanzato e qui è il caso di riflettere sulla serie di idiozie che le principali istituzioni europee e mondiali (FMI, OCSE, CE, BCE) hanno utilizzato a giustificazione di una ripresa sempre annunciata imminente e mai partita; giustificazioni a posteriori del tipo: “sottostima dei moltiplicatori fiscali”, o “modelli matematici male interpretati” ed “equilibri generali venuti meno”, un modo troppo disinvolto per definire un fallimento.
È chiaro che da qualche parte il meccanismo si inceppa, basta, infatti, riflette su quanto dice Jean Baptiste Say nelle sua Legge degli sbocchi, con la quale è convinto di spiegare e risolvere il fenomeno delle crisi economiche: “Un prodotto terminato offre da quell'istante uno sbocco ad altri prodotti per tutta la somma del suo valore. Difatti, quando l'ultimo produttore ha terminato un prodotto, il suo desiderio più grande è quello di venderlo, perché il valore di quel prodotto non resti morto nelle sue mani. Ma non è meno sollecito di liberarsi del denaro che la sua vendita gli procura, perché nemmeno il denaro resti morto. Ora non ci si può liberare del proprio denaro se non cercando di comperare un prodotto qualunque. Si vede dunque che il fatto solo della formazione di un prodotto apre all'istante stesso uno sbocco ad altri prodotti.”.
Il ragionamento non farebbe una grinza se non ci fosse una possibile variante ipotizzata da John Maynard Keynes nella sua Teoria generale dell’occupazione, variante che recita: “Il detentore di moneta può essere motivato a trattenerla invece che a spenderla; il venditore, quindi, può non risolversi in consumatore, causando una domanda aggregata insufficiente.”.
D’altronde, per citare a conforto di Keynes un esempio di vita vissuta, analoga cosa è accaduta con i famosi ottanta euro del premier Renzi: secondo gli economisti di palazzo Chigi questi sarebbero stati immessi nella spesa e quindi avrebbero dato una spinta ai consumi, paventando una sorta di ripartita, mentre, da uno studio mirato di Confesercenti e Confcommercio è risultato che i destinatari di quella somma abbiano preferito conservarla piuttosto che spenderla e questo non fa altro che confermare un corollario del tutto evidente: l’incapacità gestionale e l’impotenza a impedire il lento scivolamento nel dramma di quelle che saranno le future condizioni di vita se non di sopravvivenza delle generazioni a venire.
Stiamo morendo tra i fumi di inservibili congetture che girano sempre intorno a modelli verso i quali l’intellighenzia borghese accanisce il proprio trastullo e che hanno come ultima visione il conseguire l’equilibrio fra domanda e offerta del mercato del lavoro, cosa possibile soltanto con la flessibilità dei salari e la mobilità selvaggia.

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