29.1.16

L'ILVA IN TUTTI GLI APPETITI DEL PADRONATO


Dopo aver ascoltato ogni genere di chiacchiere e dichiarazioni ispirate al perbenismo più assoluto, la vicenda dell’ILVA, finalmente si rivela per quella che in realtà è sempre stata nelle intenzioni degli addetti ai lavori e si risolve nella solita vulgata in versione liberista. Si decide dunque di vendere un’azienda che ha visto la più che fallimentare gestione della famiglia Riva verso la quale puntualmente, tutti i governi precedenti hanno donato a manica larga, consentendo colpevolmente che costoro rendessero, nel tempo, l’azienda tecnicamente obsoleta e cosa ancora più grave, completamente fuori controllo per i limiti di emissioni e dunque estremamente inquinante. In aggiunta a queste riflessioni, stride parecchio l’esaltazione che, pur legittima nel caso dei posti di lavoro “riscattati”, si renderebbe assolutamente miope quando finge di non considerare che i privati che parteciperanno al bando d’acquisto, avranno a cuore non certo il risanare l’azienda e garantire l’occupazione ma la mera acquisizione degli altiforni e delle acciaierie dell’area a freddo e ovviamente occupare il mercato che la società per azioni in amministrazione straordinaria, conserva. 

Ci sarebbe poi da riflettere anche su i corollari squallidi che corredano il tutto, come quello che vede Bruno Ferrante, ex prefetto di Milano e uno dei primi commissari ILVA ricoprire tale ruolo fino al maggio 2013, quando il GIP Patrizia Todisco dispone un maxi sequestro da 8,1 miliardi sui beni del gruppo Riva e lo stesso Ferrante finisce nel mirino della magistratura per reati ambientali. A questo c’è da aggiungere che, nei riguardi della desolazione che da sempre caratterizza il padronato, sarebbe un lusso stupirsi per la nomina a DG dello stabilimento, a ridosso dell’avvio dell’esecuzione del programma di trasferimento dei complessi aziendali dell’ILVA, di Marco Pucci; sì esattamente quel Pucci, ex manager della Thyssen Krupp, condannato in appello a sei anni e dieci mesi per i sette morti nel rogo che si ebbe in fabbrica. Questa nomina, scandalosa, incomprensibile e fortunatamente durata un solo giorno, fu predisposta dai tre commissari cui era in mano la questione ILVA e approvata dal ministro dello Sviluppo Economico, Federica Guidi con apposito decreto. 

Sul groppone il governo conta tre anni di commissariamento che oltre a produrre sperperi, tutti senza appello accertati, per tre miliardi euro, ovviamente di denaro pubblico, che sarebbe dovuto esser utilizzato per operazioni di bonifica e accorgimenti atti a ridurre l’inquinamento, mentre lo stabilimento di Taranto ha continuato allegramente a diffondere nell’aria idrocarburi policlici aromatici, in quantità superiore ai 100 micro grammi per metro cubo, determinando nella città un inquinamento tale che la ASL consigliò alla cittadinanza di praticare – possibilmente - sport e di tenere le finestre aperte solo dalle 12 alle 18, tutto questo mentre i tarantini si ammalavano e morivano per colpa delle emissioni industriali. In questo momento l’ILVA vive un momento più che drammatico: tra poco meno di due mesi, i lavoratori in solidarietà, si ritroveranno, a causa delle fresche norme stabilite sugli ammortizzatori sociali, con oltre 300 euro mensili in meno in busta paga mentre è stato avviato il licenziamento di più di cento operai. 

Se a Genova i lavoratori combattono, resistono e una parte si ritiene in qualche modo soddisfatta, non si ferma la lotta di chi vuole vedere mantenere gli impegni del Governo con l’accordo di programma del 2005, che dovrebbe garantire l’occupazione per quel sito. È necessario che l’ILVA torni in mano pubblica anche con il supporto della Cassa Depositi e Prestiti (che in un primo tempo avrebbe dovuto far parte della compagine sociale con una quota intorno al 40%) ed è ancor più necessario pensare a un programma di nazionalizzazione e controllo operaio, anche se una cosa del genere sarebbe in rotta di collisione con i superburocrati della Commissione Europea.

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