5.7.17

LESOTHO: BUOI SULL'ASFALTO - CONTRADDIZIONI TRA PASTORIZIA E INFRASTRUTTURE






Di Lorenzo Brunello
Il Sani Pass è il tortuoso percorso che dal Sudafrica porta nel Lesotho, uno stato sovrano totalmente circoscritto dal territorio sudafricano.
L’altitudine del luogo non permette una facile proliferazione di alberi e arbusti e i pastori e i viandanti percorrono la strada sassosa, che conduce dalla dogana sudafricana a quella del Lesotho, per portare legna ai fuochi dei loro villaggi. Percorrono così 1332 m di dislivello distribuiti su un percorso di 9
chilometri, per portare la poca legna trovata a valle, nei propri spazi aperti e deserti a 2876 m. In un contesto così ancora incontaminato e arretrato tecnologicamente si sta inserendo la Cina.
Gli investitori cinesi, laddove l’acqua si estrae ancora dai pozzi, stanno costruendo strade asfaltate da far invida alle grandi metropoli europee, sfruttando peraltro i lavoratori locali. Questo permette alla Cina imperiale di porre le basi per la gestione delle reti commerciali dei nuovi centri urbani che vogliono creare in Lesotho. Le strade asfaltate sono aumentate esponenzialmente nell’ultimissima fase storica, da 887 km nel 2004 a oltre 1400 km nel 2014, un aumento superiore al 150% sul totale in soli 10 anni.
 
La popolazione dell’altopiano del Lesotho, che fino a pochi anni fa era costituita per la maggior parte pastori e agricoltori individuali, a causa dell’arrivo globalizzante del capitale cinese, si è ritrovata proiettata nell’avvio di un’industrializzazione e commercializzazione del suolo subordinata. Subdolamente la Cina ha infatti instaurato un rapporto di compravendita col governo dello stato. Attraverso la realizzazione delle infrastrutture sta ponendo le basi per radicare anche in quell’angolo di mondo i propri traffici indirizzati al profitto senza scrupoli.
Gli abitanti dei villaggi sono stati così indotti a dimenticare le competenze agricole e pastorali, per diventare abili facchini e operai. Lo stato africano, come gli altri stati continentali, sta subendo una mutazione indirizzata all’industrializzazione dei suoi territori.
Evitando di cadere nella retorica della giustizia delle condizioni di arretramento di quei paradisi terrestri lontani dalla corruzione delle grandi metropoli, è comunque fondamentale interrogarsi sull’effettiva amoralità di un tale sviluppo coordinato. In uno stato di cose globalmente giusto ed etico, le competenze per la realizzazione e per lo sviluppo andrebbero trasmesse nel limite in cui le popolazioni sovrane del territorio ne possano usufruire a beneficio della totalità. La realizzazione di una rete stradale così avanzata è chiaramente a beneficio di pochi ricchi dal momento che non esistono automobili nel Lesotho, eccetto quelle dei turisti e di qualche caso isolato nelle cittadine più grandi. Allora l’interrogativo cambia e c’è da domandarsi, perché le strade? Le strade sono la linfa
del trasporto e del commercio, ma laddove appunto non esistono auto, e gli spostamenti sono possibili solo a cavallo, perché l’impellenza di asfaltare? Il Lesotho non è infatti solo pastorizia e agricoltura. Se le colture a mais, i terrazzamenti agricoli e i vasti pascoli sono necessari al mantenimento dei locali, c’è chi riesce a sfruttare il non visibile, il sottosuolo. Le miniere del Lesotho, anche più di quelle sudafricane, sono ricche di diamanti, uranio e altri minerali, il quale commercio è però gestito e coordinato dai padroni inglesi. Anche a loro risulta dunque utile la costruzione delle strade. Anche l’Italia ha preso parte alla convergenza imprenditoriale per la realizzazione di grandi opere ne Lesotho. Se infatti una buona parte del Pil dello stato è derivabile dalla vendita di acqua ed energia elettrica al Sudafrica, ciò è dovuto ai sistemi di dighe che hanno generato grandi bacini idrici di approvvigionamento. In particolare, per la diga di Katse si deve rendere merito alla milanese Salini Impregilo Group.
La Cina controlla inoltre il settore tessile del Lesotho. Questo non vuol dire che si limita a produrre sul suolo dello stato dell’Africa australe. Infatti, oltre ad aver rilevato i piccoli impianti tessili locali, sta svolgendo un enorme lavoro di esportazione dei filati sintetici cinesi. Il prezzo concorrenziale di queste merci fa sì che i “cavalieri del Lesotho”, definiti così da Thom Pierce in un articolo per l’Internazionale del novembre 2016, siano abbigliati di pile sintetici esportati anziché di mantelli realizzati a telaio.
Inoltre nei villaggi sono iniziati a sorgere già i primi grandi spacci commerciali gestiti da negozianti cinesi, in sostituzione dei piccoli ruderi dove i pastori e gli agricoltori vendevano i loro prodotti. L’estensione della filiera non è ancora concretizzata totalmente. Negli spacci si trovano infatti prodotti di bassa qualità di fattura cinese, oltre ai grandi sacchi di farina e di cereali d’importazione.
Tutto ciò concorre nel rapido orientamento commerciale indotto che la finanza cinese sta imponendo nel Lesotho come in gran parte dell’Africa.

È così che si passa dai sentieri sassosi, percorsi da pastori e taglialegna, alle onde d’asfalto che collegano gli sporadici villaggi. Il confine labile si sta sfagliando sotto i loro piedi, e l’equilibrio della loro quotidianità si sta compromettendo,

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