2.1.15

LO STATO SOCIALE SECONDO L'UNIONE EUROPEA

Rilancio delle attività economiche con conseguente taglio drastico alla disoccupazione, risanamento delle banche, spinta a elargire il credito verso famiglie e piccole imprese, aumento degli investimenti, riduzione del debito pubblico e altre amenità del genere sono argomenti che governi europei, Commissione Europea e BCE strombazzano da tempo come obiettivi da realizzare; peccato, però che su tutta questa linea, governi, Commissione e Banca stiano man mano realizzando una cocente sconfitta.
C’è comunque da chiedersi se la dichiarazione di tutte queste buone intenzioni corrisponda poi a una volontà vera di realizzare queste cose.
Quasi tutti i media europei, adottando un copione oramai ben consolidato, ricordano a scadenza quasi giornaliera, quali potrebbero essere i danni derivanti da un eventuale crollo della zona euro o dalla sconfitta delle politiche di austerità che avrebbe un effetto negativo per il rilancio dell’economia o dalle tensioni che si vivono tra Berlino, Parigi, Roma, Londra e i membri della zona Euro.
A questo bisogna aggiungere quelle che sono le contraddizioni in seno al consiglio della BCE, quelle che sono le difficoltà, per altro enormi, nel trovare un accordo sul bilancio dell’Unione e non da ultimi quelli che sono gli attriti di alcuni governi europei col FMI sulla meccanica delle politiche di austerità.
Non volendo assolutamente prender sottogamba tutto quanto è fermento tra i vari soggetti dell’Europa, si rischia, comunque, che tutto questo possa nascondere criticità ben più consistenti: ai dirigenti europei dei paesi economicamente più forti e ai padroni delle grandi imprese risulta essere piuttosto conveniente l’esistenza di una zona economica, commerciale e politica comune, dove queste ultime e le economie del Centro della zona euro, posso trarre solo giovamento dal tracollo della periferia, perche ciò consentirebbe di rafforzare i profitti delle proprie imprese e porsi un po’ meglio in termini di competitività rispetto ai concorrenti nord americani e cinesi.
Con tali premesse risulta difficile pensare che gli obiettivi di tali soggetti possano essere il rilancio della crescita e la riduzione delle disarmonie tra le economie forti e quelle deboli dell’UE. 
I dirigenti europei ritengono, inoltre, che il tracollo del Sud sarà un “opportunità per la privatizzazione diffusa di imprese e di beni pubblici a prezzi stracciati”.
L’intervento della Troika (BCE, FMI, Commissione europea) e la complicità attiva dei governi della periferia sono di supporto a tutto questo, infatti, le classi dominanti dei paesi della periferia sono favorevoli a tali politiche, perché sono convinte di poter partecipare alla spartizione che prima o poi dovrà avvenire: le privatizzazioni realizzate in Grecia e in Portogallo sono un triste presagio di quanto avverrà in Spagna e in Italia, dove i beni pubblici da acquisire sono ben più importanti, considerate le dimensioni di queste due economie e contemporaneamente i dirigenti dei paesi europei più forti economicamente, sono preparati a essere protagonisti di una nuova tornata di privatizzazioni nei loro rispettivi paesi.
Lo stretto legame esistente tra grande capitale e governanti, oramai viene esibito senza vergogna alcuna: in posti chiave dell’economia di diversi governi e alla presidenza della BCE, sono sistemati personaggi che provengono direttamente dall’alta finanza; basta citare, uno per tutti, il nome di Emmanuel Macron, personaggio tra gli alti papaveri della banca Rothschild, nominato ministro dell’Economia e dell’Industria dal presidente François Hollande.
Ovviamente nomine del genere hanno dei precedenti nel passato, ma di questi tempi la cosa pare sia diventata una sorta di consuetudine, si può parlare di un vero e proprio scambio tra governi e capitale, senza che la cosa turbi più di tanto.
L’affermare che la politica dei dirigenti europei sia un fallimento è sbagliato nel momento in cui ci si rende conto che la crescita e la riduzione degli squilibri in seno alla zona euro, non è il reale obiettivo della BCE, della Commissione Europea, dei governi delle economie più forti dell’UE, del mondo delle banche in generale e delle altre grandi imprese private: tutti hanno interesse che la meccanica del mondo economico giri a loro profitto.
Per rendersi conto di quanto i governanti siano al servizio degli interessi del grande capitale basta riflettere un attimo su quelle che sono le loro risposte alla crisi: una terapia d’urto, in cui quelli che ci rimettono sono sempre gli stessi e rimetterci non vuol dire solo pagare in denaro, significa veder erosi i propri diritti giorno per giorno, vedere uno stato sociale ridotto in spazi sempre più limitati, vedere servizi essenziali appaltati al guadagno privato.
Sotto questo aspetto l’Europa è un capolavoro: i diritti economici, sociali e formativi sono gradualmente ridimensionati nei loro principi stessi, senza dimenticare quanto vengono considerati i diritti civili e politici come quello di eleggere i propri rappresentanti.
In effetti, il Parlamento europeo non esercita alcun potere legislativo, i parlamenti dei vari paesi accettano supinamente quanto dettato dalla Troika, organismo questo che limita fortemente, attraverso una serie di trattati adottati senza una vera e propria consultazione democratica, le varie sovranità nazionali, basta citare ad esempio il Patto di bilancio europeo (Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’UE) che fissa obblighi inaccettabili ai vari bilanci.
Per non parlare del fatto che molti diritti non vengono nemmeno presi in considerazione: il suffragio universale diretto, il diritto al rigetto dei trattati, il diritto di modifica costituzionale attraverso un processo democratico costituente, il diritto di protestare e soprattutto la mancanza assoluta di seppur elementari meccanismi che possano considerare il dissenso dei popoli europei.
È terribile doverlo dire ma l’UE e i suoi paesi membri non fanno che sostenere quella che altro non è che una deriva autoritaria, consolidando, tassello dopo tassello, un ritorno all’esercizio diretto del potere affidandolo ad alcuni dei rappresentati di un’oligarchia economica.
In questo che è un disegno europeo di vera e propria aggressione avverso i diritti delle persone, nessuno dei governi ha lasciato niente di intentato; il debito pubblico è la minaccia più frequentemente usata e sull’altare del suo risanamento è stato immolato di tutto: l’allungamento dell’età pensionabile, l’esclusione, per un buon numero di quanti hanno perso la propria occupazione, dal diritto a un’indennità di disoccupazione, la precarizzazione dei contratti di lavoro, il blocco o la riduzione dei salari, il taglio di diverse prestazioni sociali, il ridimensionamento degli organici nel pubblico e nel privato, la falcidia di molti dei servizi pubblici, la richiesta sempre più incalzante di produttività ai fini di una sempre maggiore competitività avverso gli altri stati dell’UE e dei concorrenti commerciali degli altri continenti, tutto questo in quadro dove la disoccupazione ha raggiunto livelli oramai indecenti.
Questo è un gioco vecchio, dove il capitale ha sempre guazzato alla grande: render precario il lavoro, limitare in maniera drastica la capacità di mobilitazione e di resistenza dei lavoratori, ridurre i salari e tagliare le diverse indennità sociali, il tutto mantenendo profonde disparità tra lavoratori dell’UE con lo scopo di aumentarne competizione ed emulazione.
Il motto di antica memoria: “Divide et impera!” ancora una volta si dimostra vincente.
È un fatto che nell’ambito dei lavoratori dello stesso paese esistano profonde e ingiuste disparità: tra donne e uomini, tra i contrattualizzati a tempo indeterminato e quelli a tempo determinato, tra vecchie e le nuove generazioni la dove le prime beneficiano di un sistema pensionistico rimesso completamente in discussione per queste ultime, senza, in tutto questo, dimenticare i lavoratori irregolari, che, nel campo dei diritti legati al lavoro, sono praticamente degli invisibili.
Ma le disparità non si limitano all’ambito di uno stesso paese, perché a queste si aggiungono quelle tra i diversi paesi: i salari dei lavoratori dei paesi più forti, vedi Germania, Francia, Paesi Bassi, Finlandia, Svezia, Austria e Danimarca, sono il doppio o il triplo di quelli di Grecia, del Portogallo o della Slovenia e il salario minimo legale della Bulgaria (156 euro lordi mensili nel 2013) è di circa nove volte inferiore a quello di paesi come la Francia, il Belgio o i Paesi Bassi.
Ma il dato che risulta particolarmente curioso è quello che viene fuori se si raffrontano i parametri della civilissima Europa con quelli dell’America del sud, da sempre, nell’immaginario collettivo, considerata arretrata e patria delle più grandi disparità sociali: mentre sono piuttosto consistenti le differenze tra le economie più forti (Brasile, Argentina, Venezuela) e quelle più deboli (Paraguay, Bolivia, Ecuador), la differenza tra il salario minimo legale è di uno a quattro.
La disparità, rispetto all’UE è nettamente meno marcata, il che significa che la competizione tra i lavoratori dell’Europa è, quindi, estremamente elevata consentendo alle imprese dei paesi europei economicamente più forti di guazzare a proprio piacimento nel variegato ambito delle disparità salariali in seno all’Ue.
Tutto questo viene celato con l’utilizzo una consolidata e collaudata pratica di affabulazione, riproposta in ogni occasione ufficiale con il discorso ufficiale del politico di turno ed è quindi il caso di guardare con attenzione e spirito critico a tutte le fiabe raccontate per potersi organizzare e quindi opporsi a questa logica di frantumazione dei diritti e di sfruttamento criminale del lavoro.

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